Salve a chiunque di voi stia leggendo, il brano che ho pubblicato quest'oggi è stato frutto di una lunga e laboriosa riflessione ed elaborazione, diversamente dai miei soliti scritti che sono messi su carta di getto! Qui ( anche se è quasi puramente fantasia) c'è molto di me, della mia esistenza. Spero di averla resa con giustizia.
Quando conobbi Annie il vento rabbioso che da mesi modellava la
sabbia era appena cessato.
Le nuvole davano tregua alla luce, ed essa,
tentennante, raggiungeva il suolo e i bordi delle strade si macchiavano di un
verde spontaneo.
Le mattine, ancora un po’ fresche, erano dello
stesso celeste pallido dei suoi occhi.
Quegli immensi occhi da bambina, un po’ sbiaditi e
un po’ sfuggenti.
I suoi occhi spuntavano fuori dal viso come fanno
i fiori di campo quando ormai la neve sciolta disseta la terra… e come li accarezzavo,
quegli occhi.
Lei, Annie, la primavera, con le sue mani fine e
le parole corte.
I respiri densi.
Era la leggerezza che calpesta i rancori, la
fioritura improvvisa, la più profumata, la più breve.
Quelli di maggio erano i fiori che nemmeno potevano
sbocciare senza sfregiarsi subito.
Così era il nostro amore, brillante come i suoi
capelli biondi, ma non durevole. Non scavava a fondo, restava in superficie.
Era l’illusione tiepida della notte che precede i
giorni dei monsoni.
Delle tempeste silenziose.
Della sua sincera assenza.
E arido fu poi l’autunno di quell’anno.
Ed è per Jusy che, dopo che l’estate torrida aveva
seccato ogni parte buona del mio cuore,
io vagavo calpestando le foglie cadute, calciando gli sguardi altrui.
Non mi ero mai odiato tanto.
Ma la colpa non era sua.
Se tremavo quando passavo le dita fra i suoi
capelli bruni, era per paura.
E socchiudevo gli occhi pieni di incubi quando
poggiavo la guancia sui suoi seni piccoli.
Era convinto che forse, in lei, avrei ritrovato un
po’ di me stesso.
In lei, nella ragazza con le sopracciglia
aggrottate, dal carattere forte ma dalle parole fragili.
Pensando a lei scagliavo la mia immaginazione
contro un cielo grigio perla, mentre, silenziosamente attendevo il
termine. L’ultimo respiro del nostro
grande sbaglio: quell’attrazione vuota, sebbene devastante.
E così ho visto il suo sguardo voltarmi le spalle
e non cercarmi mai più. Così come le rondini erano ormai migrate da settimane.
Ma tutti noi eravamo migrati lontani, da quei
calmi e solitari giorni di novembre.
Oh tu, Emi, come mi spezzasti il cuore.
Io che avevo smesso di credere anche in dio
affidai la mia fede a te, un donna venuta con il gelo.
Dedicai innumerevoli versi ai tuoi capelli
d’inchiostro.
Ai tuoi occhi di seta nera.
Alla pallida pelle, alle dita sottili.
Al modo in cui la tua figura longilinea lasciava
lievi impronte sulla neve.
Neppure adesso riesco a spiegarmelo quel miracolo
fulmineo.
E sono sicura che le nuvole create dai nostri
respiri ora siano in cielo, chissà dove a nascondere le stelle.
Tante erano le notti senza luci, passate a contare
i pensieri, ad abbattere pareti.
Ma dietro alle tue pareti non c’erano tesori, solo pozzi,
profondi vuoti.
L’inconsapevolezza ti rendeva santa, o forse
mostruosa e faticavi a trattenere le tue paure fra le labbra carnose, mentre io
impazzivo per trattenere il tuo odore.
Fortissimo, accecante, il tuo profumo sovrastava
ogni cosa: la pioggia, il freddo, il rumore, il silenzio, i rami spezzati ed il
vento. La perdita.
Oh Emi, e tra le tante follie, piano piano, smisi
di credere anche in te.
Ma il tuo odore, delle volte, lo sento ancora.
Non so descrivere ciò che rimane. Ciò che è
rimasto.
Mi blocco al pensiero di quel che ci siamo
lasciati dietro e che in pochi mesi ha bruciato la terra.
Eppure ogni terreno divenuto sterile, prima o poi
saluta l’arrivo dell’estate.
Raccoglie il suo calore e germoglia di nuovo.
Joanne diceva di amare i miei occhi. Io non
l’ascoltavo.
Non ascoltavo nessuno, nemmeno chi mi avvertiva
che una donna come lei, che appare come il sole sceso tra le ceneri, infiamma gli animi ma affama i cuori.
Poveri noi, uomini stolti. Innamorati della sua
finta pudicizia.
Canzonati dai suoi occhi ridenti.
Verdi.
Mai visti occhi così. Accesi, intensi, poi di colpo
seri, velati e poi di nuovo irrisori.
Ero stordito dalla sottile patina di sudore della
sua pelle lucida. Calda, bollente.
La baciavo sotto il suono dei grilli di agosto.
Ma eravamo in troppi ad amare i suoi occhi vispi,
e lei non amava nessuno. Se non se stessa.
Così l’ho semplicemente lasciata andar via, mentre
il tramonto, afoso, designava la fine di un ciclo che non poteva essere diverso
da quello che era stato.
E ora realizzo per la prima volta, ripensando a
tutte le stagioni passate, che ci sono uomini come me, persone come me, che
sono nate per camminare da sole.