sabato 15 dicembre 2012

Storia di un uomo.


Salve a chiunque di voi stia leggendo, il brano che ho pubblicato quest'oggi è stato frutto di una lunga e laboriosa riflessione ed elaborazione, diversamente dai miei soliti scritti che sono messi su carta di getto! Qui ( anche se è quasi puramente fantasia) c'è molto di me, della mia esistenza. Spero di averla resa con giustizia.



Quando conobbi Annie  il vento rabbioso che da mesi modellava la sabbia era appena cessato.
Le nuvole davano tregua alla luce, ed essa, tentennante, raggiungeva il suolo e i bordi delle strade si macchiavano di un verde spontaneo.
Le mattine, ancora un po’ fresche, erano dello stesso celeste pallido dei suoi occhi.
Quegli immensi occhi da bambina, un po’ sbiaditi e un po’ sfuggenti.
I suoi occhi spuntavano fuori dal viso come fanno i fiori di campo quando ormai la neve sciolta disseta la terra… e come li accarezzavo, quegli occhi.
Lei, Annie, la primavera, con le sue mani fine e le parole corte.
I respiri densi.
Era la leggerezza che calpesta i rancori, la fioritura improvvisa, la più profumata, la più breve.
Quelli di maggio erano i fiori che nemmeno potevano sbocciare senza sfregiarsi subito.
Così era il nostro amore, brillante come i suoi capelli biondi, ma non durevole. Non scavava a fondo, restava in superficie.
Era l’illusione tiepida della notte che precede i giorni dei monsoni.
Delle tempeste silenziose.
Della sua sincera assenza.


E arido fu poi l’autunno di quell’anno.
Ed è per Jusy che, dopo che l’estate torrida aveva seccato ogni parte buona del mio cuore,  io vagavo calpestando le foglie cadute, calciando gli sguardi altrui.
Non mi ero mai odiato tanto.
Ma la colpa non era sua.
Se tremavo quando passavo le dita fra i suoi capelli bruni, era per paura.
E socchiudevo gli occhi pieni di incubi quando poggiavo la guancia sui suoi seni piccoli.
Era convinto che forse, in lei, avrei ritrovato un po’ di me stesso.
In lei, nella ragazza con le sopracciglia aggrottate, dal carattere forte ma dalle parole fragili.
Pensando a lei scagliavo la mia immaginazione contro un cielo grigio perla, mentre, silenziosamente attendevo il termine.  L’ultimo respiro del nostro grande sbaglio: quell’attrazione vuota, sebbene devastante.
E così ho visto il suo sguardo voltarmi le spalle e non cercarmi mai più. Così come le rondini erano ormai migrate da settimane.
Ma tutti noi eravamo migrati lontani, da quei calmi e solitari giorni di novembre.



Oh tu, Emi, come mi spezzasti il cuore.
Io che avevo smesso di credere anche in dio affidai la mia fede a te, un donna venuta con il gelo.
Dedicai innumerevoli versi ai tuoi capelli d’inchiostro.
Ai tuoi occhi di seta nera.
Alla pallida pelle, alle dita sottili.
Al modo in cui la tua figura longilinea lasciava lievi impronte sulla neve.
Neppure adesso riesco a spiegarmelo quel miracolo fulmineo.
E sono sicura che le nuvole create dai nostri respiri ora siano in cielo, chissà dove a nascondere le stelle.
Tante erano le notti senza luci, passate a contare i pensieri, ad abbattere pareti.
Ma dietro alle tue pareti non c’erano tesori,  solo pozzi,  profondi  vuoti.
L’inconsapevolezza ti rendeva santa, o forse mostruosa e faticavi a trattenere le tue paure fra le labbra carnose, mentre io impazzivo per trattenere il tuo odore.
Fortissimo, accecante, il tuo profumo sovrastava ogni cosa: la pioggia, il freddo, il rumore, il silenzio, i rami spezzati ed il vento. La perdita.
Oh Emi, e tra le tante follie, piano piano, smisi di credere anche in te.
Ma il tuo odore, delle volte, lo sento ancora.  


Non so descrivere ciò che rimane. Ciò che è rimasto.
Mi blocco al pensiero di quel che ci siamo lasciati dietro e che in pochi mesi ha bruciato la terra.
Eppure ogni terreno divenuto sterile, prima o poi saluta l’arrivo dell’estate.
Raccoglie il suo calore e germoglia di nuovo.
Joanne diceva di amare i miei occhi. Io non l’ascoltavo.
Non ascoltavo nessuno, nemmeno chi mi avvertiva che una donna come lei, che appare come il sole sceso tra le ceneri, infiamma gli animi ma affama i cuori.
Poveri noi, uomini stolti. Innamorati della sua finta pudicizia.
Canzonati dai suoi occhi ridenti.
Verdi.
Mai visti occhi così. Accesi, intensi, poi di colpo seri, velati e poi di nuovo irrisori.
Ero stordito dalla sottile patina di sudore della sua pelle lucida. Calda, bollente.
La baciavo sotto il suono dei grilli di agosto.
Ma eravamo in troppi ad amare i suoi occhi vispi, e lei non amava nessuno. Se non se stessa.
Così l’ho semplicemente lasciata andar via, mentre il tramonto, afoso, designava la fine di un ciclo che non poteva essere diverso da quello che era stato.

E ora realizzo per la prima volta, ripensando a tutte le stagioni passate, che ci sono uomini come me, persone come me, che sono nate per camminare da sole.

_Daichi Chou_




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